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COSA NON CI FARA' USCIRE DALLA CRISI ECONOMICA
Tra tasse, tagli, competitività e questione morale.

Sono ormai tre anni che i "luminari" dell'economia globale ci predicano una ripresa dietro l'angolo, ma sono puntualmente smentiti dai dati dell'economia reale. L'inflazione galoppa sul dato ufficiale del 2,1% ma diventa, secondo le Associazioni dei Consumatori tra il 9-11% e, visti gli aumenti ai quali siamo sottoposti nell'"Era dell'euro", c'è da crederci. L'inflazione si è abbattuta come un macigno sugli italiani che ormai guardano con rabbia e sospetto chi ancora continua a parlare di fiducia nel mercato. Questa situazione si aggiunge agli scandali ed ai default finanziari mai risolti; da Ernon all'Argentina per passare per Cirio fino ad arrivare a Parmalat.

All'interno di questo scenario sconcertante tutti si lamentano richiedendo riforme per uscire dalla crisi. Nel nome della "Sacra Competitività" la Confindustria chiede al governo detassazioni e privatizzazioni. Gli imprenditori impegnati sul mercato globale con Paesi come la Cina richiedono a gran voce maggior flessibilità del mercato del lavoro per contenere i costi della produzione e quindi mantenere la competitività. Perfino i lavoratori dipendenti disubbidiscono ai sindacati scendendo in sciopero spontaneamente per richiedere aumenti salariali adeguati all'aumento del carovita (vedi la vertenza dei ferrotranviari). Lo Stato, stretto dal debito riduce le spese usando la legge del taglione soprattutto sopratutto su quei settori di estrema necessità sociale: Sanità e Scuola.

Tutti piangono la crisi ma il problema è rimasto fino ad ora irrisolto, ne è conferma il trend economico negativo. Né il Governo, né le alte istituzioni, nazionali, europee o globali hanno prodotto soluzioni capaci di convertire questo flusso che sta portando alla deriva l'intera società italiana. I bassi salari e la sfiducia stanno facendo calare a picco i consumi costringendo molti imprenditori e commercianti ad aumentare i prezzi per mantenere i loro profitti e, molte volte, per non chiudere le proprie aziende. In queste condizioni, lo Stato riceve, in proporzione, meno entrate fiscali dagli scambi commerciali e va alla ricerca di nuovi tagli alla spesa pubblica.


Per uscire dalla crisi, vanno prima individuate le cose che, a livello socio economico, non vanno fatte. Una di queste è quella di non partire dal principio di "avere la botte piena e la moglie ubriaca" che in periodo di vacche magre è una cosa sconsiderata e palesemente iniqua per molti. Questa purtroppo è la posizione dell'attuale Governo e della coalizione che lo sostiene e in maniera diversa della Confindustria e di altre associazioni di grandi imprenditori.  Non si può pretendere, ad esempio, di detassare le fasce di popolazione più ricche e allo stesso tempo avere i conti pubblici a posto. Promettere di tagliare le tasse senza pensare al debito pubblico italiano che è il più alto in Europa significa garantire al nostro Paese il collasso economico. In realtà la proposta del Governo Berlusconi si traduce nel gioco delle tre carte, dove il banco ti fa vincere una o due volte e poi ti svuota il portafoglio. Come dire che con una mano ti dà e con l'altra ti toglie quello che gli serve a coprire il buco del debito il quale viene ricavato dalle tasche della classe media perché quelli che oramai sono diventati poveri come ovvio non hanno nulla da dare e chi è super riccco è intoccabile.

Invece la Confindustria dice che sarebbe più giusto se il Fisco tagliasse l'Ilor, la tassa sulle aziende, invece dell'Irpef; potrebbe essere senz'altro una scelta condivisibile soprattutto per le piccole imprese nonchè positiva anche per l'occupazione. Ma se si chiede alla Confindustria o ad Assobanche di partecipare al risanamento del debito pubblico applicando una tassa sui patrimoni più alti, allora si alzano dal tavolo delle contrattazioni accusando l'interlocutore di bestemmia per aver toccato qualcosa di sacro. Ci dicano le associazioni degli imprenditori quale deve essere il loro contributo al risanamento di cui tanto si preoccupano, dopotutto ci sono interi volumi di stanziamenti di denaro pubblico che testimoniano nelle tasche di chi suddette somme sono andate. Sono più di trenta anni che si stanziano patrimoni pubblici a grandi e medi gruppi aziendali sotto forma di detassazione o aiuti diretti eppure la percentuale di occupati in queste imprese è vertiginosamente calato: non ci potranno sicuramente dire che hanno utilizzato gli aiuti di Stato per distribuire ricchezza! In questa situazione di forte crisi economica, facendo un'equa scala di valori  i più ricchi ed i super ricchi dovrebbero contribuire in maniera proporzionale alla loro ricchezza altrimenti la loro irrazionale avidità si ripercuoterà su tutto il tessuto sociale impedendo alle calassi media e meno abbiente di poter riprendersi, accollandosi tutto il fardello del debito.

Dove poi si vede che seppur in maniera diversa, Governo e grandi imprenditori vanno d'accordo sono sulle leggi varate per depenalizzare i reati di falso in bilancio ed ostacolare le rogatorie internazionali su conti bancari all'estero. Non si può pretendere che in questa direzione che più nessuno truffi consumatori e risparmiatori (vedi Parmalat, Cirio, Ernon, Argentina). Difatti le leggi che dovrebbero tutelare i piccoli investitori rimangono ferme in Parlamento in attesa di modifiche che, come al solito, trasformeranno una riforma necessaria, quella della tutela del risparmio, in una inutile bolla di sapone.

Soprattutto non si può pretendere una ripresa concedendo agli imprenditori maggior flessibilità del mercato del lavoro (vedi legge 30) mentre i dipendenti devono vivere con conseguenti tagli salariali e maggior insicurezza sociale. "Dulcis in fundo": come si può pensare di essere competitivi nel mercato globalizzato con nazioni come la Cina o i Paesi dell'Est Europa quando noi giustamente pretendiamo dalle aziende maggior sicurezza sugli ambienti di lavoro, norme antinquinamento, salari equi, ampliamento dei diritti dei lavoratori, ecc., mentre in questi Paesi tali norme non esistono ed addirittura non applicano persino le ingiuste ed insufficienti regole imposte dal WTO. Come si può pretendere che l'Italia e l'Unione Europea possano avere una crescita rapida e soprattutto duratura nel tempo? Siamo inondati da merce contraffatta, prodotta con manodopera sfruttata e sottopagata a costo 5, 10 o 15 volte minore della nostra manodopera. A queste condizioni non c'è automazione che possa sostenere la nostra produttività. In Italia lo abbiamo già visto nei settori manifatturieri come l'abbigliamento, il tessile, il chimico e presto altri settori si uniranno ad essi. Di questo passo la nostra capacità produttiva scomparirà senza che nessuno abbia posto dei rimedi a questa emorragia economica.

L'uscita dalla crisi è possibile a patto che vadano smitizzate due rigidità della teoria neoliberista:

A) che la globalizzazione è portatrice di benessere socioeconomico per tutti

B) che tutti possono competere sul mercato globale.

Questi due principi sono le cause maggiori del dissesto economico e sociale del nostro Paese e del Mondo intero. Abbiamo già detto che è impossibile competere con certi Paesi perché non esistono le condizioni per farlo ma soprattutto non si possono impiantare politiche economiche che sacrificano in nome del mercato i diritti ed il potere d'acquisto della maggior parte della popolazione, pena la morte del mercato stesso. Ma perché, nonostante questo disastro che si sta compiendo sotto gli occhi di tutti, si continuano a sostenere politiche così fallimentari? Semplice, perché la politica, le istituzioni ed il mondo accademico sono influenzati dallo strapotere economico delle grandi multinazionali. Sono le multinazionali che hanno capitali e risorse necessarie per competere nel mercato globale, tutto il resto della popolazione si adatta ed in parte vive in base alle esigenze e alle necessità di mercato di questi colossi. Può sembrare inverosimile eppure è così, tant'è vero che le statistiche dicono che le multinazionali occupano direttamente solo 1% della forza lavoro mondiale mentre le lunghe mani delle lobby economiche multinazionali arrivano dappertutto. Ad esempio alla maggior parte della popolazione mondiale non interessa lo sbocco commerciale e produttivo sul nascente mercato cinese. I cinesi sono in grado di operare e produrre su piccola scala come fanno i nostri artigiani e le nostre piccole e medie industrie. Questo è dimostrato da recenti accadimenti dove aziende italiane si sono viste "clonare" intere gamme di prodotti talvolta scippati anche del marchio; dove la qualità era pressappoco la stessa, ma il prezzo molto inferiore. Le uniche invece in grado di usufruire di commesse sul mercato cinese e nei Paesi Emergenti sono le multinazionali che possono competere sulla costruzione delle infrastrutture e dei servizi (telefoni, autostrade, dighe, produzione d'auto, servizi finanziari. . . ), oltre a tutte quelle multinazionali che vogliono produrre in Cina per il basso costo della manodopera. La maggior parte della popolazione di quei Paesi che subiscono la concorrenza dei prodotti importati da Paesi come la Cina, non trae nessun beneficio economico da ciò e, nel lungo periodo, tocca con mano che quei prodotti al supermercato non costano di meno ma sono la causa dei tagli salariali e talvolta anche della perdita del posto di lavoro.

Anche alla stessa popolazione cinese importerebbe poco produrre per le multinazionali ed il ricco occidente se la produzione invece di essere esportata fosse indirizzata per il consumo del mercato interno. Anzi considerando il volume della popolazione cinese questa politica potrebbe far aumentare non solo l'occupazione ma adeguare i salari alle necessità delle persone estirpando la fame e la povertà tuttora esistenti.

Per concludere va detto cha la tanto ricercata competitività che il Governo e le Associazioni degli imprenditori desiderano non si può pretenderla accollando il problema sulle spalle di altri perché nessuno in questo momento, individualmente è in grado di sostenerlo.
La necessità di rifondare il mercato con regole e controlli precisi che salvaguardino diritti delle persone e la competitività nel pieno rispetto dell'ambiente è una necessità urgente che deve coinvolgere tutti in modo responsabile e secondo le proprie possibilità economiche mettendo da parte i propri egoismi e le convenienze di parte. Inverosimilmente le soluzioni a questa crisi dipendono più dalla questione morale che dalle teorie economiche. Tali principi morali e valori di giustizia sociale che, in economia, dovrebbero proporzionalmente interessare ed essere recepiti da chi i capitali li detiene. Tutti noi speriamo che i super ricchi prima o poi diano un significato alla parola moralità.

2004-11-07 Dante Nicola Faraoni


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