I nuovi scenari e il Movimento Noglobal
Il Movimento Noglobal ha il merito di aver posto all'attenzione dell'opinione pubblica mondiale le ingiustizie e le aberrazioni della Globalizzazione economica. L'incessante protesta, lo spirito di giustizia e libertà che anima il Movimento ha permesso di denunciare l'illegittimità degli organi sovranazionali; sono stati denunciati i disastri ambientali, lo sfruttamento minorile e dei soggetti più deboli; sono stati smascherati i tentativi, da parte delle multinazionali, di appropriazione illecita di proprietà e ricchezze naturali di popolazioni indigene in varie parti del mondo.
Il Movimento Noglobal ha intrapreso anche delle azioni propositive come ad esempio L'Estinzione del Debito dei Paesi poveri, l'Applicazione della Tobin Tax alle transazioni finanziarie internazionali di tipo speculativo, il Commercio Equo e Solidale, ecc.
Questo lavoro di denuncia è senz'altro positivo in quanto rafforza la coscienza sociale della gente ma noi pensiamo che "la politica della protesta e del boicottaggio" non siano sufficienti a creare le condizioni per un reale cambiamento. La protesta deve corrispondere ad una concreta proposta.
Ci sono varie osservazioni che si possono fare a favore di questa tesi:
Il cambiamento degli scenari economici internazionali.
La crisi economica e lo stato di recessione delle economie cosiddette avanzate come il Giappone e gli Stati Uniti hanno aperto nuovi scenari per il futuro della globalizzazione. Questa situazione di forte crisi che si protrae da più di un anno ha portato una nuova situazione nel panorama internazionale: se prima gli organismi che dirigono e controllano la Globalizzazione dovevano affrontare problemi che si erano creati all'esterno del sistema (esempio: i Noglobal con le loro manifestazioni di protesta, i boicottaggi alle multinazionali, le campagne contro il WTO, FMI ecc.) oggi si trovano ad affrontare problemi sviluppatisi all'interno del sistema stesso. Questi problemi sono dovuti alle scelte di mercato che gli organismi internazionali hanno fatto e soprattutto all'incapacità delle teorie di sostegno alla globalizzazione di risolvere le situazioni di crisi.
Per affrontare la recessione, sia Giappone prima che USA ora, sconfessando ogni teoria neoliberista, hanno richiesto un esagerato intervento finanziario da parte dello Stato rispolverando alla grande Keynes, riportando alla memoria scenari oscuri della storia economica come quelli della Grande Depressione del 1929.
A questo proposito bisogna ricordare che in Giappone gli interventi dello Stato si protraggono da più di 10 anni ed in maniera massiccia dal 1997 (anno della crisi del sud est asiatico) ma non hanno dato nessun risultato, anzi, la situazione di incertezza per quanto riguarda le sorti di questa economia è fortemente aumentata.
Gli Stati Uniti per affrontare la crisi stanno adottando le stesse misure fallimentari che per lunghi anni il Giappone ha inutilmente applicato: ricapitalizzazione del sistema bancario e produttivo (soprattutto grandi aziende) e sgravi fiscali per le aziende. Se il Giappone oggi ha un enorme debito pubblico da gestire, cosa ne sarà degli USA che in un solo mese, con una spesa di 180 miliardi di dollari, ha invertito la rotta del risanamento del bilancio federale andando in rosso? Anche gli innumerevoli interventi di politica monetaria, come l'abbassamento dei tassi di interesse, sono sembrati poco influenti anzi hanno ulteriormente complicato il quadro generale dell'economia. Le situazioni di incertezza sono molte e non decretano solo il fallimento delle politiche economiche neoliberiste ma forti dubbi sul futuro dell'economia mondiale.
Nel resto del mondo, anche se le statistiche non confermano per il momento questo stato recessivo dell'economia, non va senz'altro meglio. Se si esclude la timida tenuta dell'Europa comunitaria il resto è panico, vedi per tutti la situazione dell'Argentina o della Turchia.
Alla luce di questo nuovo ed inquietante scenario la domanda che ci si pone è questa: se è lo stesso sistema della globalizzazione ad essere in crisi, non è troppo riduttivo boicottare un'azienda se la domanda di suoi prodotti cala per cause recessive? Quando un'economia non riesce più a produrre ricchezza si boicotta da sola, caso mai il problema è quello di ricreare il meccanismo della crescita, evitando di commettere gli errori che hanno causato lo stato di crisi e questo è una questione non solo di diritti umani ma soprattutto di teoria economica. Con il calo della produzione e dei consumi che avanza, la disoccupazione che aumenta, i pericoli di inflazione e la povertà che spadroneggia in mezzo mondo è indispensabile ricreare il sistema economico in funzione di una maggiore ridistribuzione della ricchezza. Quindi vanno discusse e affrontate nuove strategie ed alternative ai sistemi neoliberisti piuttosto che ideare strategie di disturbo ad un sistema che sta letteralmente andando in pezzi: bisogna dare delle risposte propositive alla crisi. La protesta deve corrispondere ad una concreta proposta di cambiamento del sistema. La denuncia delle multinazionali che sfruttano i minori e le popolazioni dei Paesi poveri che producono beni per i Paesi ricchi va combattuta con un sistema economico e delle regole che sviluppino la coscienza sociale delle persone.
L'11 settembre e la guerra.
Il tragico evento dell'11 settembre ha mutato la psicologia collettiva creando nuovi fronti di scontro nell'opinione pubblica. Se guardiamo l'accaduto da quest'ottica il tragico evento non è solo un atto terroristico ma la constatazione da parte di una larga fetta dell'opinione pubblica delle difficoltà degli Stati Uniti. Essi sono di fatto il Paese guida della globalizzazione e nell'immaginario collettivo sono il Paese simbolo e di riferimento per qualsiasi evento. Ogni novità culturale, sociale o economica che provenga dagli States si imita in tutte le parti del mondo.
L'attacco terroristico ha portato a galla le forti contraddizioni sociali che gli Stati Uniti stanno vivendo e ha accelerato i processo di crisi economica già in atto, tutte circostanze che hanno indebolito la sua immagine di Paese guida. L'attacco alle Twin Towers va sempre più configurandosi come una presa della Bastiglia o l'assalto al Palazzo d'Inverno, eventi che hanno segnato cambiamenti storici epocali.
Per l'Amministrazione Bush, la guerra scatenata contro l'Afganistan, benché sia propagandata come un'azione contro il terrorismo, ha sicuramente motivazioni ben più importanti. La prima è quella di mantenere una relazione di fiducia con la propria popolazione scoraggiata dalla recessione economica che ha fatto crescere la disoccupazione, le perdite in borsa e il crollo dei profitti delle aziende. La fiducia dei consumatori e della popolazione è crollata allo stesso modo delle Torri Gemelle cosicché Bush è stato letteralmente costretto a dichiarare guerra al terrorismo capeggiato da Osama Bin Laden.
A nostro avviso questo atto di forza produrrà lievi danni al terrorismo internazionale. E' impensabile immaginare che dopo un attacco come quello di New York le centrali del terrore siano rimaste in Afganistan a ciel scoperto e che i terroristi non abbiano previsto una reazione di forza da parte degli USA. La logica del terrore è basata sulla strategia "dell'invisibilità" e "del mordi e fuggi". E' impensabile combattere il terrorismo con una guerra convenzionale come stanno facendo gli Stati Uniti. Anzi, quest'approccio non può che portare all'allargamento del conflitto in quell'area, difatti dopo l'Afganistan si sono aperti altri due fronti: Palestina - Israele e India - Pakistan.
La seconda motivazione della guerra, che corrisponde ad un'altra debolezza, è quella delle relazioni internazionali. L'attacco terroristico al cuore del Capitalismo Occidentale dimostra che oggi non tutti i potenti della terra sono disposti a subire l'egemonia ed il controllo economico USA.
Bisognerebbe precisare che Bin Laden non è un leader religioso ne' un guerriero terrorista fondamentalista ma uno dei più ricchi uomini del mondo arabo. Bin Laden è un capitalista emergente e dissidente che usa e sovvenziona il terrorismo dei fondamentalisti islamici per ottenere il controllo del mercato del petrolio senza chiedere il permesso delle multinazionali Usa e Occidentali.
Il piano di Bin Laden è nitido: inneggiando alla guerra santa vuole destabilizzare i Paesi islamici, in primo luogo il suo: l'Arabia Saudita; cercando di destituire i governi filoamericani attuali e cacciare gli Occidentali dal Golfo Persico e dal Medio Oriente. Gli Stati Uniti non possono permettere a Bin Laden, come non lo hanno permesso a Saddam Hussein, di porre veti o richiedere autonomie economico commerciali perché devono salvaguardare i profitti delle multinazionali e le esigenze energetiche dell'Occidente.
Gli atti di neocolonialismo USA prevarranno sui propositi di pseudo patriottismo islamico inneggianti alla guerra santa di Bin Laden e i suoi alleati? La nostra opinione è che, al di là di come si concluderà questa guerra, gli USA non riusciranno più a mantenere l'egemonia ed il controllo economico sui Paesi Arabi per le seguenti ragioni:
A) Il forte dissenso contro i governi filo americani fomentato dai fondamentalisti all'interno dei Paesi islamici.
B) La crescente ostilità contro gli Usa e l'Occidente che hanno bombardato la popolazione di un Paese islamico.
C) L'aumento dei consensi della politica indipendentista di Bin Laden da parte della classe dirigente araba. Il crollo delle borse a livello mondiale ha ridotto i capitali finanziari delle banche degli Sceicchi e degli Emiri, in più la crisi economica ha ridotto i consumi di greggio da loro prodotto. Non è sbagliato immaginare che il malcontento aumenti anche tra quella parte di arabi alleati dell'Occidente.
La situazione che si sta delineando nei Paesi islamici assomiglia più alle ribellioni che si crearono verso la fine dell'impero romano e che ne decretarono la dissoluzione.
Questa situazione trasformerà per forza di cose anche la strategia del movimento Noglobal perché ora è chiaro che la condizione che si sta delineando non è una crisi strutturale ma una crisi del sistema e quindi le alternative proposte devono essere globali e non parziali. Il Movimento deve fare un passo di qualità e insieme di maturità per affrontare il cambiamento.
Nei molti interventi fatti per criticare il sistema della globalizzazione economica, sia dall'interno che esternamente al Movimento antiglobalizzazione, c'è un approccio a temi come la povertà, lo sviluppo, gli aiuti ai Paesi poveri che rispecchiano più una visione riformatrice degli organi motori della globalizzazione (WTO, FMI, BM) che quella di affrontare le esigenze delle popolazioni che la subiscono.
Non vogliamo fare una critica ma una domanda: siamo sicuri che questa via sia quella giusta per superare le contraddizioni della globalizzazione economica? Il nostro modesto parere è che chi chiede di riformare il WTO, IMF, ecc. si dimentica la vera natura di questi organismi che è quella di rappresentare gli interessi della parte ricca dei Paesi ricchi!
La natura di questi organismi è il profitto e la sua massimizzazione che determinano il valore di mercato delle aziende nelle borse di tutto il mondo. E' su questo fondamentale pilastro che si basa la globalizzazione. Se la richiesta del rispetto dei diritti umani intralcia o intacca questo processo, considerato per la teoria capitalista indispensabile e insostituibile per produrre crescita economica, essa non potrà mai essere accettata, pena la fine del sistema. E poi, se non esistesse questo meccanismo universalmente riconosciuto come motore propulsore dell'economia capitalista con che cosa dovrebbe essere sostituito? Il movimento se vuole dare una risposta realista allo slogan "Un mondo diverso è possibile" deve dare una risposta alla questione della crescita.
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