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Dalla competitività alla Cooperazione coordinata

Nell'ultimo quindicennio, l'Italia è stata attraversata da un rallentamento del processo di crescita economica, che sta coinvolgendo, oramai, ampia parte dei Paesi industrializzati e che è avvertito con particolare intensità nei Paesi dell'area dell'euro e del dollaro, con i quali l'economia italiana è maggiormente integrata, nonché in alcuni Paesi in via di sviluppo.

Gli ultimi strascichi dell'attuale governo conservatore hanno portato all'emanazione della legge sulla competitività nel tentativo estremo di sburocratizzare le norme e proteggere l'economia nazionale, in particolare, dagli attacchi della concorrenza sleale asiatica. La nuova sfida del capitalismo contemporaneo occidentale appare essersi lanciata verso una lotta suicida all'ultimo sangue tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, per il mantenimento alto dei consumi, per chi produce di più, per chi vende di più, per chi di più si accinge ad arrivare "solo" al traguardo della meta capitalistica: la globalizzazione dell'economia mondiale.

Il nucleo dei settori industriali nei quali si concentrano i due terzi delle esportazioni italiane (la meccanica, il tessile e abbigliamento, il mobilio, i minerali non metalliferi, l'industria conciaria, l'alimentare, la chimica, la metallurgia, i mezzi di trasporto e la carta) contribuisce alla formazione di meno del 20% del valore aggiunto complessivo dell'economia italiana. In ampia parte di questi settori, l'offerta interna deve confrontarsi in mercati internazionali senza regole, aperti e competitivi. Il resto del sistema produttivo italiano, che copre più dell'80% del valore aggiunto dell'intera economia, è connotato da un grado relativamente basso di penetrazione nei mercati internazionali.

Da bambino mi ricordo che sulle bancarelle era difficile imbattersi in prodotti asiatici, perché erano i nostri ad essere spediti verso quelle lontane terre. In seguito, man mano che il tempo passava, abbiamo assistito ad un'esplosione di nuovi paesi emergenti che hanno visto nell'esportazione dei prodotti finiti l'unico modo di sostentamento delle proprie fragili economie. Le stesse produzioni che in occidente venivano eseguite tra metà ottocento ed inizio secolo, sulla base della dicotomia dello sfruttamento della manodopera e della tecnologia elementare, nei nuovi paesi emergenti vengono oggi riprodotte con la riduzione di quella dicotomia al solo sfruttamento della manodopera e con l'utilizzo della moderna tecnologia industriale.

Due modelli di economia, una capitalista neo-liberale e l'altra di stampo capitalistico centralista, stanno dirompendo nella vita di milioni di persone, da entrambe le parti del pianeta, conducendo il dibattito degli economisti sulla materia della competitività quale chiave per la soluzione dei problemi macroeconomici che investono oggi l'occidente.

Più competitività per migliorare l'economia italiana, ci dicono i politici, gli esperti economisti e gli imprenditori; però, quando i risultati delle dicotomie prodotte dalle economie occidentali, ad inizio secolo, producevano sfruttamento e povertà, tale epoca era stata battezzata come "rivoluzione industriale", mentre l'attuale processo di espansione produttiva dei Paesi emergenti, in particolare asiatici, viene vista come cattiva figlia del capitalismo avido e bieco. Insomma, l'una delle due. O il capitalismo classico ha generato anche le attuali forme di capitalismo contemporaneo asiatico, più sbilanciate sullo sfruttamento esasperato della manodopera senza diritti, o il capitalismo contemporaneo occidentale non è lo stesso figlio della rivoluzione industriale e non è fratello maggiore del capitalismo asiatico.

Alcuni economisti stimano che la Cina tra circa 20 anni diverrà la prima potenza economica mondiale del pianeta, sorpassando così gli Stati Uniti d'America. Sono sicuro che allorché si verificasse tale superamento, altri paesi emergenti, dal continente africano a quello latinoamericano, coglieranno l'opportunità offerta dall'epoca contemporanea nell'utilizzare una tecnologia avanzata nei settori economici, a discapito dei diritti umani ad un lavoro certo, sicuro e retribuito con pari dignità. E allora anche la Cina dovrà fare i conti con i nuovi paesi emergenti.

Benché lo status dell'economia mondiale si vada definendo sempre più sotto la guida della globalizzazione, esistono forti contraddizioni interne che mostrano palesemente la profonda antiteticità e contraddizione interna del capitalismo neo-liberista. Abbiamo, cioè, di fronte due spinte contrapposte: una della globalizzazione e l'altra degli accordi-trust.

Da un lato, eventuali strategie protezionistiche vengono considerate conservative e da ostacolo all'innovazione, limitazione delle opportunità; dall'altro, si definiscono e rafforzano vincoli regolamentari, soprattutto quelli che ostacolano l'accesso al mercato, non solo impedendo l'ingresso, ma condizionando l'ambiente nel quale le imprese definiscono le proprie strategie economiche, favorendo comportamenti privati anti-competitivi.

Il vortice dello sfruttamento, del prendere, dell'avere, del distruggere, rispetto ai movimenti positivi dell'emancipazione, del dare, dell'essere, del creare, che la concezione capitalista ha creato sin dal suo sorgere, sino ai nostri giorni, è portatrice di un flagello che si autoriprodurrà nei decenni a venire, fino a quando una valida alternativa, in sua sostituzione, verrà proposta all'umanità.

Ecco, dunque, senza troppo meravigliarci, i governi nazionali vorrebbero generare dentro di noi la convinzione che, attraverso gli strumenti di una maggiore competizione economica, una semplificazione amministrativa nell'apertura di nuove attività economiche e migliorando gli stratagemmi dei controlli alle importazioni e delle certificazioni delle produzioni etiche, si riesca a far fronte all'invasione delle produzioni estremamente concorrenziali delle economie emergenti. La competizione e la concorrenza sta diventando la nuova parola d'ordine e non solo nei confronti delle economie emergenti, ma anche all'interno dei contesti lavorativi e di vita nazionali: dall'inter-competizione tra Paesi diversi si passa all'infra-competizione all'interno della medesima area geografica.

Però, come si diceva prima, l'idea di promozione della competizione economica genera un effetto opposto a quello iniziale. Le pratiche economiche proibite volte a escludere i concorrenti dai mercati liberalizzati, in netto contrasto con le politiche neo-liberiste di globalizzazione, sono invece particolarmente diffuse in presenza di imprese dominanti verticalmente integrate. In questi casi esistono forti incentivi da parte di chi controlla l'infrastruttura e opera anche a valle, nei mercati liberalizzati, a ostacolare l'ingresso dei concorrenti. E', ad esempio, di qualche giorno fa la scoperta di un cartello segreto tra grandi imprese italiane di costruzione nel partecipare alle gare pubbliche per la costruzione di opere a carattere nazionale.

Da un lato, le politiche di egemonia delle multinazionali e dei governi che le appoggiano stendono target di efficienza e di crescita economica basate sulla dilatazione della globalizzazione ad ogni livello produttivo, ad ogni risorsa; tutto ciò, mentre è lo stesso tessuto capitalistico che, a mò di risposta autoimmunitaria, contrasta tale tendenza con pratiche che cercano di chiudere e di escludere da importanti fette di mercato eventuali concorrenze non gradite, costruendo cartelli più e meno taciti ed impedendo, in tal modo, l'espressione imperativa della libera concorrenza che tanto, invece, si plaude.

Da un lato, si vogliono creare barriere d'entrata ai mercati economici attraverso un giusto controllo a quelle concentrazioni che potrebbero determinare interventi "truccati" in caso di imprese verticalmente integrate, che cioè occupano spazi a monte ed a valle dell'economia; dall'altro lato, le imprese che anche accolgono positivamente gli effetti "esterni" della globalizzazione economica, internamente cercano di praticare policy che tengono conto più delle esigenze di conservazione e protezione di mercato che di rendere trasparente la concorrenza.

Il capitalismo moderno, allo stato attuale, mostra di possedere più di una contraddizione. Lo sforzo che i governi dell'economia dei Paesi attuano, da un lato per realizzare le strategie delle liberalizzazioni e delle globalizzazioni e dall'altro lato di attenuare gli effetti delle concentrazioni economiche anti-concorrenziali, mostra tale profonda lacerazione interna al modello capitalistico. Per dare un'immagine di tale situazione, possiamo pensare al mulo che per farlo camminare bisogna fargli vedere continuamente una carota dinanzi a sé: siamo arrivati proprio a tale estrema condizione. Abbiamo iniziato un viaggio senza possibilità di ritorno.

I centri vitali dell'economia mondiale (Banca mondiale, organizzazioni per il commercio, ecc.), attraverso le politiche ultra-liberali e globalizzanti, hanno pensato di rendere primarie le immagini delle economie libere e più concorrenziali, mentre dall'altro lato attuano politiche che agevolano l'aumento delle concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi individui. Più i governi dell'economia capitalistica intendono amplificare le politiche di liberalizzazione, più adottano nuove strategie di limitazione dei mercati alla penetrazione di concorrenza; più si scorporano settori e nicchie di mercato per contrastare gli effetti delle concentrazioni economiche anti-concorrenziali, più si facilitano nuove concentrazioni economiche proprio nella misura in cui nuove risorse economiche entrano nei mercati globalizzati.

Il sentimento diffuso che si sta generando è che i rapporti con le persone e l'ambiente debbano essere diretti all'egemonia di una parte sull'altra, alla subordinazione della vita della maggioranza sulla vita di pochi.

L'aumento delle concentrazioni economiche in poche mani è inversamente proporzionale all'adozione reale di politiche economiche, talvolta taciute, di restrizioni alla libera concorrenza.

I consumi annuali di materie prime e di energie del nostro paese equivalgono al consumo delle stesse risorse spese in media a 30 anni di un paese in via di sviluppo, senza parlare di quelli sottosviluppati. Se tutte le economie del pianeta volessero consumare le stesse quantità di alimenti, acqua e risorse energetiche al pari dell'occidente industrializzato, avremmo oggi un pianeta collassato su stesso.

Sia le società a capitalismo avanzato, che le società a capitalismo emergente hanno un estremo bisogno di cambiare direzione di sviluppo, per passare dal modello edonistico ed agonistico della competitività a quello neo-umanistico e solidaristico della cooperazione. La via di uscita e la soluzione alla crisi in cui stanno sprofondando le società occidentali è rintracciabile nelle basi lanciate da P.R. Sarkar con il modello di sviluppo bilanciato, dove si cerca di equilibrare l'utilizzo progressivo delle risorse fisiche e non fisiche individuali e collettive.

Ciò che l'Italia ha oggi bisogno non è una legge che accentui la "competitività" tra i membri della società, bensì programmi a sostegno ed incentivazione della "cooperazione". Una delle caratteristica di base degli individui è la nostra natura sentimentale: siamo abituati a stabilire, fin dalla nascita, particolari relazioni con gli oggetti ed attività con cui veniamo in rapporto. Se il sentimento per un particolare oggetto prescelto venisse ben accordato con il sentimento collettivo di un determinato luogo e della psicologia collettiva locale, allora quello stesso sentimento potrà essere utilizzato per creare un forte senso di unità e coesione locale. Il sentimento della competitività estremizzato e diffuso in ogni ambiente (economia, scuola, sanità, famiglia, ecc.) porta a frammentare e rompere quel sentimento profondo di connessione fra coscienza individuale e coscienza collettiva, che sta alla base dell'idea della cooperazione.

Un sentimento di comune affinità etnico-culturale si rileva positiva per la realizzazione di un solido legame di solidarietà sociale ed economica. Infatti, secondo Sarkar, il legame sentimentale di una popolazione locale, include fattori quali linguaggio, tradizioni storiche, letteratura popolare e artistica, usi comuni ed espressioni culturali.

Ciò che la competitività, condotta agli estremi, provoca nel mondo è un malessere diffuso che proviene proprio dallo scollegamento tra sentimento individuale di proiezione di aspirazioni, bisogni ed aspettative nel contesto socio-economico di origine e sentimento collettivo di assorbimento e valorizzazione delle coscienze individuali. Se gli abitanti di un'area locale non sviluppassero un senso di fiducia in relazione alle proprie attività socio-economiche, essi diverranno psicologicamente deboli e facili vittime dello sfruttamento.

Il fine di un movimento cooperativistico può essere sintetizzato nel concetto di cooperazione coordinata. Coordinata in quanto scopo, ad esempio, di un'economia di un territorio non dovrebbe essere solo permettere alle imprese la soddisfazione delle proprie aspettative economiche di sviluppo e di reddito, bensì anche incentivare e rafforzare lo sforzo congiunto di miglioramento delle condizioni e possibilità di vita individuali e collettive, a loro volta strettamente collegate al benessere realizzato dalla comunità locale in ogni sfera di vita.

Nella sfera socio-economica, il vero scopo che fa della cooperazione coordinata come una vera alternativa a capitalismo e comunismo è la riappropriazione da parte della gente locale del proprio territorio, delle sue risorse e potenzialità economiche, di tradizioni e culture locali. Il movimento delle cooperative dovrebbero rappresentare non solo un modello di sostenibilità ed autosufficienza economica, ma anche fornire un piano di recupero dei centri urbani, delle periferie, dei centri storici e delle aree rurali.

Alla politica della globalizzazione occorre contrapporre una politica basata sulla decentralizzazione in tutti i settori della vita socio-economica. Un'economia decentralizzata è basata sul principio del consumo e non del profitto. La sicura reperibilità delle materie prime locali garantirà una costante offerta in modo tale che i beni prodotti potranno essere venduti sul mercato locale. Ciò che sta accadendo, invece, nei Paesi asiatici è che una volta che la produzione locale, eseguita con materie prime spesso provenienti da multinazionali e industrie estere, esce dalle fabbriche, la mancanza di potere di acquisto da parte della popolazione locale conduce verso l'esportazione tutti i prodotti finiti. Una volta che gli abitanti di un luogo acquisteranno fiducia con la propria sicurezza economica, potranno accettare con sincerità i benefici del sistema cooperativo. Un'economia decentralizzata presuppone che la programmazione economica di un paese debba incominciare dal livello più basso dove praticità, conoscenze ed esperienze possano contribuire al benessere locale.

Decentramento economico e cooperazione coordinata, in antitesi a globalizzazione economica e competizione capitalistica, rappresentano due aspetti inseparabili di uno stesso processo. Il sistema cooperativistico rappresenta il miglior mezzo per organizzare la gente locale, garantirne le minime necessità e l'incremento del proprio benessere socio-economico.

Le cooperative permettono la migliore combinazione tra efficienza produttiva, incentivi e soddisfazione dei soci lavoratori. Ma affinché abbiano successo richiedono:

- forte moralità, amministrazione stabile e accoglimento del movimento cooperativo da parte dell'opinione pubblica;
- destinazione di una quota degli utili di gestione ad accumulazione indisponibile per i soci;
- offerta di prodotti e servizi che abbiano un interesse di base generalizzato e sentimentale;
- ambiente socio-economico idoneo a sostenerle.

Dare voce al movimento cooperativistico, è dare voce a chi non ce l'ha. Incentiviamo i nostri politici a realizzare leggi a sostegno della cooperazione coordinata, a favore di uno sviluppo equo e sostenibile.

2005-05-15 Massimo Capriuolo

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